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Candelora.

3 giugno in Racconti

2 Commenti

Il bambino è seduto nel letto con due cuscini piegati tra reni e testiera. Il peso delle coperte gli schiaccia le gambe secche e parallele. I monitor ribattono la frequenza cardiaca. L’ossigeno fischia nel tubo.
L’uomo è di fianco al letto. Siede composto, ma il parka lo impaccia.
«Ti prendo un’altra coperta?» chiede l’uomo sfregandosi le mani sulle cosce.
Il bambino scosta la mascherina trasparente dal viso «No, grazie. Non sento freddo»
Un uccello piomba sul balcone della stanza. Atterra con difficoltà sulla ringhiera: la testa incassata tra le ali, le piume sferzate della tormenta.
Il bambino fissa il volatile «Bianca sarebbe più bella»

Il bambino fissa il volatile «Bianca sarebbe più bella»

L’uomo pondera la risposta «Penso sia un maschio»
«Sembra una merla – ribatte il bambino – Non avevo mai visto una merla»
L’uomo annuisce lentamente «Anche scura non è male»
Il bambino tossisce dentro la mascherina, poi continua con un filo di voce. «Mio padre mi ha detto che gli uccelli portano via le anime delle persone morte»

«Mio padre mi ha detto che gli uccelli portano via le anime delle persone morte»

«L’ho sentito dire anch’io, ma penso sia solo un modo di dire»
Il bambino spegne l’erogatore, posa la mascherina e mette le braccia lungo i fianchi. Braccia lunghe, ossa in crescita. Le mani, animate da un leggero tremore, stringono e lasciano la ruvidezza della lana. La neve sferza il balcone con fiocchi pesanti che rigano il vetro. La merla, con un balzo, si stacca dalla ringhiera e si butta nella tormenta. L’uomo aggiunge una coperta sulle gambe del bambino.
Il bambino tocca la mano dell’uomo e la tiene per un attimo «Io non voglio più avere freddo» dice, mentre rilassa le dita «Da oggi, per me, finisce l’inverno»

«Da oggi, per me, finisce l’inverno»

Il corridoio è illuminato da lampade al neon, una ogni due metri. Lettighe vuote sono parcheggiate vicino agli ingressi delle stanze. L’uomo cerca di sciogliere il freddo assiepato tra le scapole roteando le spalle. Di fronte a lui, il dottore accosta il piumino sopra il camice, strofina una mano sull’altra cercando l’attrito della pelle secca e screpolata.
«La temperatura esterna è troppo bassa. Le caldaie vanno al massimo. Sembra impossibile, ma non riusciamo a riscaldare neanche i reparti al piano terra»
«Che mi dici del bambino?» chiede l’uomo sprofondando le mani nelle tasche.
«Il quadro clinico non è critico: la febbre è scesa e gli antibiotici stanno facendo effetto. Ma non sono i polmoni a preoccuparmi»
«Il padre si è fatto vivo?»
Il dottore sposta il peso da un piede all’altro. La gomma degli zoccoli stride sul linoleum.
«Solo mezz’ora tra ieri e oggi»
«Immaginavo. Cercherò di parlare ancora con il bambino, poi scriverò la mia relazione: sarà il tribunale dei minori a decidere»

L’uomo è percorso da un brivido, mentre traguarda il bambino dall’oblò rettangolare al centro della porta.
«Mi pare che di te si fidi – dice il dottore – sono sicuro riuscirai a capire cosa è meglio per lui»
L’uomo annuisce e, sovrappensiero, lascia che le sue pupille perdano il fuoco. Fa scattare ripetutamente il bottone automatico della tasca destra. Con l’altra mano, si accarezza la base del naso e sente l’odore pungente del disinfettante economico.
Quando guarda di nuovo attraverso l’oblò, il letto è vuoto.

Nessuno si aspetta la neve. Il cielo è di un bianco accecante, corrono le nuvole ghiacciate spinte dal vento. Fiocchi in cristalli schizzano a tagliare la faccia, a bruciare le orecchie. La città è in agonia. L’ospedale sembra un enorme pitone ibernato sulla collina. Il balcone è coperto da uno scricchiolante strato di neve fresca. Gettati vicino ai piedi del bambino stanno la maglietta di lana, la camicia del pigiama, i maglioni, le calze. Le mani hanno già perso sensibilità a contatto con la ringhiera, ma le sue dita stringono il metallo con tutta la forza dei nervi. I piedi scalzi scavano uno spazio nella neve con il tepore delle piante, ma, in breve, dal rosa passano al bianco, al blu. Respira a fondo. Il naso non basta a scaldare l’aria che arriva gelida nei polmoni. Ha il petto esile e il ventre prominente che, gonfiandosi, tira il diaframma. Si vede il cuore pulsare. Si possono contare le costole fino a tendere la pelle fra l’una e l’altra. Sentire con le dita il cuore che batte. L’uomo accorre, apre la portafinestra ed esce sul balcone. Rallenta, poggia le mani sulle spalle del bambino esercitando una pressione leggera ma decisa.
«Rientriamo?»
Il bambino non si volta, ma toglie le mani dalla ringhiera e le posa su quelle dell’uomo.
«Mio padre mi ha detto che la neve non è fredda, se il cuore non è triste»
Il sangue defluisce dalle gote del bambino. Il calore si dissipa e le unghie sbiancano. I peli biondi sulla nuca si drizzano seguendo la pelle d’oca.
«Non ho paura dell’inverno, perché il mio cuore è caldo di coraggio»
Lo sguardo del bambino resta fisso all’orizzonte e le parole si mischiano col vento.
«Gennaio è andato e Febbraio arriva. E quando arriverà io sarò qui ad aspettarlo»

Ho scritto questo racconto nel febbraio del 2011 per il concorso “Io sono Febbraio – Racconta la tua favola invernale” di ISBN Edizioni. “Candelora”, così come lo potete leggere sopra, è stato selezionato dalla giuria e inserito nell’e-book “Storie di Febbraio”.

L’illustrazione che arricchisce questo racconto è stata realizzata, appositamente per questo blog, da Gianluca Sturmann.

 

2 thoughts on “Candelora.

  1. Antonella Nesta
    14 giugno 2014 at 19:10 Rispondi

    Ho pianto, ma è bellissimo. Ogni volta che leggo un tuo racconto riesci a stupirmi per quanto sei bravo.

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